4.1 Il percorso di maturazione dell’arte narrativa
Dopo aver fatto tesoro dell’esperienza nell’ambito della shinkankakuha, Kawabata imboccherà un percorso di elaborazione e sviluppo artistico che lo porterà gradualmente ad apprezzare la letteratura classica giapponese. Come sostiene Washburn tuttavia, il processo di rielaborazione e acquisizione dell’estetica tradizionale nipponica non sarà mai automatico ma sempre cosciente nello scrittore1. Non si tratta tanto, perciò, di un “ritorno al passato”, come sostiene, tra gli altri Ichihara2, piuttosto della costante ricerca di una forma che possa restituire la profonda visione estetica dell’autore: Kawabata infatti, secondo Ōe Kenzaburō (大江健三郎) , era giunto ad una comprensione della bellezza di natura mistica3. Per restituire questa maturazione o forse sarebbe meglio dire visione, le possibilità espressive convenzionali, cioè della letteratura occidentale di fine Ottocento e inizi Novecento, sembrano ormai giunte per l’autore ad un empasse. Kawabata lo aveva già compreso durante il suo periodo emergente, nel corso del quale si era trovato anche a stretto contatto con la narrativa occidentale ma fu solo negli anni a venire, dopo lo scioglimento dello sperimentalismo della shinkankakuha, che lo scrittore ravvisò nella letteratura giapponese classica quel retaggio al quale si sentiva di fare affidamento nel processo espressivo della sua visione della bellezza.
Il percorso seguito dall’autore non è stato, però, quello di procedere alla acritica e pedissequa acquisizione delle forme letterarie della tradizione, bensì di intraprendere una personale evoluzione estetica e letteraria. L’avvicinamento avviene con la presa di coscienza degli ideali artistici della poesia classica e della narrativa di epoca Heian, come il Genji monogatari e il Makura no sōshi4, fino a giungere alla assimilazione di quella speciale sensibilità giapponese per l’asimmetrico e per l’irregolare che sono in stretta connessione con il Buddismo Zen.
L’enfasi che viene data alla spontaneità, alla brevità e all’immediatezza da parte dello Zen e da quella che è la sua massima espressione artistica in campo letterario, cioè lo haiku, sembra affascinare particolarmente Kawabata. Nello haiku il tempo sembra fermarsi, dando un particolarissimo effetto di silenzio e perciò di vuoto. E’ l’espressione di quella che Starrs chiama “estetica del vuoto”5.
L’idea di una letteratura che possa restituire un senso di vuoto e di improvviso, di istantaneo, sembra apparentemente inconciliabile con la necessità di una tensione narrativa. Kawabata, tuttavia, attraverso tutta una serie di “artifici” che potremmo definire “antinarrativi”6, assimilabili in parte ai principi su cui si basa quella forma poetica medievale che risponde al nome di renga, sembra restituire quella giusta tensione. La sua tecnica consiste perlopiù di un uso simbolico di parole ed oggetti, di legami associativi prima che causali.
4.2 Il retaggio della tradizione
Secondo Ōe Kenzaburō, premio nobel per la letteratura nel 1994, una delle caratteristiche che si respira nella narrativa di Kawabata è quello dell’ambiguità. Ne è permeata la prosa e anche il discorso di accettazione del premio Nobel, Il Giappone, la bellezza ed io sembra avere questo tono di fondo. Più precisamente, una delle caratteristiche di quel discorso, ma che si potrebbe estendere facilmente a tutta la letteratura di Kawabata, è definito da un aggettivo della stessa lingua giapponese, aimaina: ovvero “vago, ambiguo, dubbio”7.
In realtà, il discorso di Kawabata, per Ōe, non è mai veramente “dubbio”, quanto “vago, ambiguo ed oscuro”. All’apparenza esprime cioè molti concetti, ma poi risulta difficile coglierne il senso. Questa ambiguità di fondo di molta narrativa dell’autore, che è una caratteristica portante un po’ di tutta la cultura giapponese e della stessa lingua8 e che le conferisce un’aria di mistero, di simbolico, di implicito, risponde al concetto estetico dello Yūgen (幽玄). Kenneth lo descrive come “oscurità, soggettività, bellezza sensuale, elegante semplicità” 9. Yūgen è una parola composta da due sillabe, ciascuna delle quali significa “nuvoloso, impenetrabile”, la combinazione delle due sillabe dà vita ad una parola che significa “oscurità, inconoscibilità, aldilà delle possibilità dell’intelletto”, senza la valenza, però, di “oscurità totale”. Il principio che si vuole esprimere, perciò, è quello di qualcosa che sta aldilà delle nostre capacità intellettuali, nascosto alla luce, ma visibile a chi lo sa cogliere attraverso una percezione interiore, un’intuizione improvvisa ed immediata. Yūgen riguarda “i sentimenti che non possono essere espressi con parole, per esempio gli effetti della luna velata da un piccolo cumulo di nubi o delle foglie di montagna scarlatte avvolte nella foschia autunnale”10. Ancora più illuminante è la definizione di Kamo no Chōmei (鴨長明, 1153-1216)11:
Allorché molti significati sono compressi in una sola parola, quando le profondità di un sentimento sono esaurite ma non ancora espresse, quando un mondo invisibile aleggia nell’atmosfera di una poesia, quando il modesto e il banale sono utilizzati per esprimere l’eleganza, quando una concezione poetica di rara bellezza è portata avanti al massimo grado in uno stile di superficiale semplicità, solo allora, quando la concezione è esaltata al suo massimo livello e le parole sono troppo poche, la poesia…avrà il necessario vigore…12
Kawabata sembra seguire fedelmente queste suggestioni per ridare slancio alla sua prosa. Da qui il suo stile asciutto, mai ridondante, elegante senza tuttavia ricorrere all’utilizzo di parole apparentemente complesse. La sua narrativa restituisce spesso l’impressione che, dietro quella apparente semplicità, vi sia tutto un universo nascosto.
Semplicità con un velo di malinconia e rustica eleganza sono le qualità di sabi e wabi, due dei principali concetti su cui si basa l’estetica tradizionale nipponica. Wabi (侘び) significa “gusto per il semplice e il tranquillo”, da cui, come sostiene Suzuki, “povertà; non dipendenza dalle cose” 13, quindi, a livello letterario, “economia nelle parole, nelle frasi”. Al principio di wabi è strettamente connesso quello di sabi (寂び) (patina, aspetto antico), che si può scrivere anche 錆 (ruggine, patina) e significa, sempre secondo Suzuki “Bellezza nell’imperfezione, sapore dell’antico, del rustico, dello spoglio” 14. Si tratta di quel gusto per la solitudine “tranquilla ed impersonale”15 e del passaggio inesorabile del tempo evocati da certi oggetti.
La tradizione estetica giapponese possiede una forte sensibilità nei confronti di ciò che è bello ed effimero allo stesso tempo: è quello che i giapponesi chiamano mono no aware (物のあわれ) 16, un concetto che risale all’epoca Heian. In principio aware (あわれ) era un’interiezione o aggettivo che si riferiva all’emozione che un oggetto o situazione faceva risuonare nell’animo di una persona. Con l’aggiunta del termine mono (物, cosa) tale esperienza viene oggettivata e diviene l’espressione di una sensibilità comune degli uomini di fronte a un’esperienza che coglie l’essenza di una cosa, sottolineandone la sua brevità e la caducità. Si tratta quindi di un “empatia” che sorge, è il caso di sottolinearlo, “spontaneamente” tra l’oggetto e il soggetto, avvicinando i due e creando, di fatto, un’unità17. Le emozioni suscitate, quindi, possono essere molteplici: da gioia improvvisa, a tristezza, a malinconia, ma anche dolore. Rimer lo definisce così:
Rappresenta una profonda sensibilità alle cose, una capacità di cogliere i movimenti, le possibilità, le limitazioni di una vita nel contesto di un singolo incidente, talvolta di natura trascurabile. Questa risposta intuitiva eppure acculturata alla vita rappresenta la virtù estetica più elevata, e la messa in opera artistica del principio è visibile nelle opere di Tanizaki e di Kawabata così come in parecchie opere precedenti, specialmente nel Genji monogatari.18
Non è semplice restituire in letteratura, ancora di più in prosa, una esperienza così delicata. Kawabata ne possedeva indubbiamente una profonda comprensione, avendo letto molto i classici sia di prosa che di poesia. La trasposizione letteraria del principio consiste nel rendere l’esperienza del bello unendola a quel sentimento misto a tristezza di fronte ad un evento che si sa che non potrà durare a lungo:
Era all’incirca la metà di agosto, piovigginava. In una fila di alberi, sotto ad un solo albero di acacia, i fiori erano caduti coprendo l’asfalto. Shingo si domandò come mai, mentre li seguiva con la testa dalla macchina, e la scena gli rimase impressa. I fiori erano minuti e di colore verdolino e giallognolo. Anche se non ci fosse stato quell’unico albero dal quale erano caduti i fiori, il solo fatto che le file di acacie erano fiorite gli sarebbe rimasto lo stesso impresso. Era sulla strada di ritorno dall’ospedale dove era andato a trovare un amico malato di cancro al fegato. 19
Shingo scorge un albero di acacia che ha perduto i fiori. Ciò che lo colpisce non è soltanto il fatto che quell’unico albero li stia perdendo mentre gli altri ancora li hanno, ma che la loro bellezza sia, in ogni caso, un fatto da ammirare in sé. Il sentimento di effimero del protagonista è però rivolto anche verso sé stesso: Shingo, infatti, è appena tornato dall’ospedale dove si trova un amico malato di cancro al fegato. La morte che si avvicina per l’amico risveglia in Shingo il pensiero della propria morte, riflessa nella caducità dei fiori di acacia.
Profonda percezione della bellezza, quindi, ma anche consapevolezza della sua estrema labilità sono orizzonti esplorati in lungo e largo da Kawabata tanto che, all’età di 69 anni, quando si è recato a ritirare il premio Nobel a Stoccolma, egli sembra avere rinunciato alla possibilità di tradurre in un linguaggio comprensibile ad un pubblico occidentale questa profonda intuizione, sembra parlare più per sé che per il pubblico20. Del resto, come già ampiamente affermato in precedenza, l’idea dello scrittore era quella di restituire percezioni sensoriali e suggestioni più che trasmettere valori.
In Yama no oto Kawabata privilegia perciò le percezioni, il flusso di pensieri e di ricordi del protagonista21. Ecco che l’enfasi si sposta su attimi di stasi narrativa, tornando alla narrazione, poi volgendosi nuovamente a stimoli percettivi: è l’espressione di quell’aspetto che molti critici definiscono “discontinuità” nell’estetica giapponese22. Nel brano seguente Shingo si trova in ufficio e riceve degli ospiti. Mentre li intrattiene, gli vengono in mente i passeri che ha visto da casa sua la mattina precedente, oltre alle cince:
Stette a osservare per un po’ se i passeri e le cince si mettevano a litigare.
Ma mentre i passeri volavano e tornavano chiamandosi tra di loro, le cince stavano raccolte tra di loro. Restavano così divisi senza un motivo e anche quando si mescolavano, non avevano l’aria di voler litigare.
Shingo rimase stupito. Successe la mattina mentre si lavava.
Doveva essersene ricordato perché poco prima aveva visto i passeri sulla porta del tempio.
Quando gli ospiti se ne furono andati, Shingo chiuse la porta e rivolgendosi verso Eiko le disse:
«Portami a casa della donna di Shūichi.»23
La narrazione scorre dalla situazione di Shingo che si trova in ufficio, al suo pensiero per i passeri e le cince, ritorna alla mattina in cui aveva notato il fatto, per passare all’episodio che lo aveva fatto evocare e poi nuovamente al presente narrativo, ovvero all’ufficio e all’impiegata.
La frammentazione del continuum del romanzo è evidente ed è anche un debito da pagare alla stessa lingua giapponese che, grazie alle strutture sintattiche ridotte all’osso e all’economia nell’uso delle parole, vi contribuisce notevolmente. Sarebbe errato, tuttavia, pensare che questa sia una caratteristica portante della stessa lingua, che ben si presterebbe in altri contesti a costruzioni sintattiche più elaborate ed a un uso lessicale più ampio. Si tratta invece di una precisa e consapevole scelta dell’autore, quella stessa che lo ha fatto avvicinare alla letteratura classica.
La critica non è unanime riguardo alla consistenza del retaggio culturale della tradizione nella letteratura di Kawabata e ondeggia fra chi, come Ryan, ne riconosce il grande debito, pur ammettendo l’influenza delle correnti letterarie occidentali del novecento24, e chi, come Hasegawa Izumi, ritiene che l’influenza di Kawabata si debba quasi esclusivamente al retaggio autoctono25. In questo caso, per Hasegawa, si tratta di ravvisare negli stessi scritti dell’autore il suo rifarsi a haiku e renga in particolare. Tra le posizioni di chi è a favore di un’influenza esterna vi è quella più mediata di Palmer, il quale sostiene che il modernismo di Kawabata è più “tecnico” che “importato”, cioè Kawabata non tentò di “importare l’essenza del romanzo Occidentale, piuttosto ne elaborò le innovazioni probabilmente per espandere e arricchire il suo retaggio letterario” 26.
Washburn sposta l’enfasi, tuttavia, sul grande spirito innovatore, più che sulla continuità con la tradizione27. In realtà la posizione di Kawabata era molto particolare: come ex-membro della Shinkankakuha e acuto lettore di opere occidentali, Kawabata avvertirà sempre di più, in particolare dopo la seconda guerra mondiale e nel generico panorama di distruzione e ricostruzione del nuovo Giappone, la distanza incolmabile tra la tradizione del passato e la cultura del presente28. Gli effetti di un simile quadro globale si avvertono sia nel suo stile narrativo che nel tratteggio dei personaggi principali delle sue opere, in particolare in Yama no oto: Shingo dimentica e ricorda un po’ lungo tutto il romanzo, tanto che il punto di vista focale è il suo, caratterizzato da una forte discontinuità, di ritorni al passato, di lacune talvolta incolmabili, che spingono a domandarsi, sempre secondo Washburn, “Quanto possiamo considerare affidabile il punto di vista narrativo?” e ancora più direttamente “Quanto possiamo considerare affidabile la realtà delle esperienze individuali e delle immagini che costituiscono la storia?”29. L’esperienza di Shingo è quindi frammentaria, come frammentaria e discontinua è l’esperienza del reale dello scrittore stesso: in ciò si ravvisa la grande modernità della narrativa di Kawabata.
Egli stesso, tuttavia, non mancherà di riconoscere il debito delle sua narrativa nei confronti della tradizione. Si è parlato in questo senso della tecnica narrativa, descrittiva del flusso dei pensieri dei personaggi principali dei romanzi di Kawabata, come assimilabile allo stream-of-consciousness: Kawabata, al contrario, riconoscerà il suo debito più alle forme poetiche classiche giapponesi piuttosto che a quella tecnica occidentale30. Sempre riguardo allo stream-of-consciousness, Kawabata ritiene che le opere di scrittori occidentali (Joyce, Woolf, Proust e Faulkner) non esprimano altro che la decadenza e la problematicità dei tempi moderni, anche se sono meritorie perché aprono nuove strade all’esplorazione della mente dell’uomo31. L’origine della scrittura per associazioni e il flusso di coscienza farebbero già parte da secoli, per l’autore, della civiltà giapponese classica, come è ravvisabile nel Kagerō Nikki32, nel Genji monogatari e nel Makura no Sōshi.
Leggendo la prosa di Kawabata in traduzione sembra che, tutto sommato, questo effetto di frammentazione del reale non sia poi così evidente. E’ il risultato di un accurato lavoro di traduzione che ha portato sì a restituire la bellezza suggestiva della sua prosa, ma ha finito per cancellare quell’effetto di discontinuo che si respira leggendo l’originale. Perfino Sedeinsticker, che è stato il più grande traduttore di Kawabata in occidente e il più grande fautore del suo successo al di fuori del Giappone, riconosce di non poterne restituire fino in fondo il senso e il ritmo33. “Le ambiguità di Kawabata […] sono il cuore di ciò che egli vuole esprimere. Egli ha un approccio molto più vicino alla poesia che gli altri due [Mishima e Tanizaki]”34. Spesso è proprio la traduzione che rompe la discontinuità presente in Yama no oto, aspetto che è strettamente legato a quello che Palmer chiama “asimmetria”35.
Per asimmetria s’intende l’assenza, nell’estetica tradizionale giapponese, del raggiungimento di un fine o di un punto di conclusione; è la propensione per l’irregolarità e per il numero dispari. Palmer ne parla in stretta connessione con i giardini giapponesi. L’idea è quella di restituire vastità e molteplicità, attraverso un equilibrio più interno, basato su una “finissima sensibilità giapponese”36.
L’asimmetria, perciò, ha una duplice corrispondenza nell’opera di Kawabata. Da un lato è rapportabile alla mancanza di un finale e mostra che alla narrativa dell’autore non premono infatti né compiutezza né perfezione e lo si nota anche dalle numerosissime aggiunte e rimaneggiamenti a distanza di decenni. Dall’altro lato c’è un totale disinteresse per qualsiasi messaggio conclusivo di tipo morale o etico. E’ in questo senso prepotentemente centrale per l’autore una narrativa che provochi perlopiù emozioni e suggestioni37, nel modo più diretto possibile, anche a scapito del filo narrativo che si rompe continuamente. La semplice mancanza di una progressione strettamente causale accentua la frammentarietà e, come sostiene Ryan “I frammenti suggeriscono, mentre la totalità definisce” 38. In linea con questo è il pensiero di Valéry: “Se la ‘creazione’ è definita dall’’ordine’, il disordine gli è essenziale”39. Lo spirito della letteratura di Kawabata si può sintetizzare nell’appello di Wittgenstein “non parlare, guarda!”40.
4.3 Verso un’estetica del vuoto
L’osservazione della realtà sembra così essere, per Kawabata, un momento importante della sua esperienza estetica. Attraverso questa capacità è possibile scorgere il “bello” insito nelle situazioni della vita, per poi restituirlo in letteratura.
Questo processo di tipo osservativo è strettamente correlato a quello che porta a restituire, per mezzo della “purificazione” della realtà, quelle manifestazioni della bellezza simili a vere e proprie “epifanie”. In questo senso si misura la distanza che separa Kawabata dal watakushi-shōsetsu. Non è infatti, come solevano fare gli scrittori dello Shizenshugi, attraverso la descrizione nuda e cruda di avvenimenti concreti e spesso scabrosi del quotidiano che si crea l’arte. Kawabata si muove piuttosto in direzione opposta, cioè verso le fonti stesse del bello, che sembrano le uniche capaci di restituire quella visione “pura” 41 della realtà.
Nei dettagli questa profonda e minuziosa capacità di osservazione, che rappresenta il primo passo nel processo di acquisizione dell’esperienza del bello è, secondo Ichihara, una caratteristica rilevante del costume giapponese42. Non è un caso che la maggior parte delle opere di Kawabata siano state scritte, come dichiara egli stesso, nelle pause dei soggiorni durante i suoi numerosissimi viaggi43, nel corso dei quali, osservando la natura e le persone magari da un finestrino del treno come fa Shingo44, Kawabata matura la sua visione del reale.
Il secondo passo di questo processo è quello di rendere, in questo caso per il tramite della letteratura, quell’esperienza fulminea, immediata della bellezza, avvicinabile all’esperienza Zen del satori45. L’abilità di Kawabata si misura perciò tra le due fasi della percezione della bellezza e quella del distacco necessario per poterla restituire nel processo narrativo.
Lo haikai46 sembra possedere quelle caratteristiche atte ad esprimere in forma immediata la percezione delle intuizioni di bellezza. La sua estrema brevità, il forte impatto visivo e la presenza di due o più immagini spesso unite per semplice giustapposizione47, sortiscono l’effetto di rompere qualsiasi seppur piccola tensione di tipo narrativo e frantumare ogni tentativo di istituire concatenazioni strettamente causali. Gli haikai, infatti, venivano spesso utilizzati dai maestri Zen per mostrare la propria visione del reale e per porre quesiti agli allievi, in modo da preparare le loro menti al satori.
Di seguito riportiamo alcuni esempi di haikai di Matsuo Bashō (松尾芭蕉, 1644-1694), poeta itinerante, che fu colui che portò questo tipo di composizione al massimo splendore:
Onde sull’oceano blu
Profumo di sake
La luna di stanotte.48
Fragranza di orchidea
Nelle ali di farfalla
Respira l’incenso.49
Questa strada
Nessun viandante la percorre
Questa sera d’autunno.50
Kawabata riprende questa tecnica di giustapposizione di due o più sequenze con precisi intenti semantici51. Shingo si trova sul treno che lo riporta a casa e vede seduto nella carrozza un uomo occidentale, molto corpulento, che ha vicino a sé un ragazzino il quale, molto probabilmente – sostiene Shingo – si prostituisce.
Shingo sentì come se si trovasse di fronte ad un grande mostro, venuto dall’estero per prendere con sé il ragazzo del posto. Il ragazzo indossava una maglietta rosso cupo e avendo un bottone aperto, se ne potevano vedere le ossa del petto.
Shingo ebbe la sensazione che la fine di quel ragazzo non sarebbe stata lontana. Gli venne di distogliere lo sguardo.
Dentro alla fogna puzzolente, crescevano rigogliose file di erbe verdeggianti. Il treno era ancora fermo. 52
La descrizione del ragazzo è seguita dalle valutazioni di Shingo riguardo al suo breve futuro e, subito dopo, per giustapposizione, la descrizione della fogna aperta e puzzolente. Il significato è qui chiaro: la sensazione che provoca in Shingo la visione della scena è accostata a quella dell’odore della fogna.
Effetti di immediatezza, quindi, ma anche di estrema libertà espressiva, rompendo con le solide e rigide forme espressive tradizionali. Per Liman l’effetto è quello che:
le forme solide e le relazioni convenzionali, pietrificate tra gli oggetti, divengono elastiche e liquide, quasi raggiungendo un’ideale trasparenza; gli oggetti tornano alle possibilità aperte e alla libertà del caos prima del tempo, eppure le loro forme riflettono ancora il mondo materiale. 53
Si ritorna, quindi, a quel “caos primordiale” nel quale gli oggetti possiedono nuovamente infinite possibilità di essere plasmati. Le pause che si formano tra le immagini della composizione, perciò, le quali vengono accostate per semplice giustapposizione, creano dei salti54 assimilabili agli spazi vuoti della pittura Zen o addirittura al silenzio55. L’invito esplicito rivolto al lettore è quello di riempire il vuoto con l’immaginazione. Gli spazi, oltre a suggerirlo, sono anche il riflesso del mu56, del vuoto stesso57. A fronte di possibili incomprensioni riguardo a cosa si intenda precisamente con “vuoto” nell’estetica Zen, Kawabata ce lo definisce chiaramente:
Questo “vuoto” è lo stato che raggiunge il discepolo Zen che “siede con gli occhi chiusi”, per lungo tempo, in silenzio, senza muoversi, così entra in uno stato dove non ci sono né idee né pensieri. Egli così facendo si distacca dal sé e raggiunge uno stato di vuoto. Questo “vuoto” non è il nichilismo all’occidentale, piuttosto il contrario, un mondo di spirito dove tutto comunica liberamente con tutto, oltrepassando tutti i confini, senza limiti.58
In sintonia con la definizione dello scrittore, Barthes sostiene che è il “vuoto di parola” che costituisce la scrittura, ed è “da questo che nascono quei tratti con cui lo Zen, nell’esenzione di ogni senso, scrive i giardini, i gesti, le case, i mazzi di fiori, i volti, la violenza” 59. Questi spazi vuoti sono quindi il necessario divario tra una serie di immagini, spesso semplicemente giustapposte, che conferiscono una sensazione di discontinuità.
Frammentazione, quindi, ma anche desiderio di raggiungere l’unità tra soggetto che percepisce/oggetto percepito. Tra le figure retoriche utilizzate da Kawabata con questa intenzione sicuramente fa una grossa parte la sinestesia, un punto di connessione, secondo quanto sostiene Starrs, tra Kawabata, la Shinkankakuha e i simbolisti francesi60. Ne è esempio il seguente brano, nel quale Shingo si trova nel parco imperiale con Kikuko, subito dopo il suo aborto. Di ritorno da un breve soggiorno dai suoi a Tōkyō, dopo una telefonata di Shingo decide di incontrarsi con lui al parco:
Shingo si trovava in difficoltà e salutò dicendo dolcemente:
«Puoi già tornare a Kamakura?»
«Sì»
Kikuko annuendo con franchezza, disse:
«Vorrei proprio tornarci».
Le sue belle spalle si mossero allorché fissò gli occhi di Shingo. Il movimento della spalle non era stato avvertito da Shingo ma un dolce profumo lo colse di sorpresa. 61
Qui l’immagine visiva del movimento delle spalle si fonde con quella del profumo di Kikuko.
In Kawabata, quindi, l’uso di tecniche narrative vicine alla forma dello haiku ha il duplice effetto di sospendere la narrazione e di creare una discrepanza, in mezzo al cui spazio vuoto così creato si inserisce l’intuizione, “l’illuminazione temporanea nella quale vediamo la vita delle cose”, secondo Blyth62. Le immagini, insomma, unite allo spazio vuoto tra loro, puntano direttamente ed immediatamente alle intuizioni stesse.
Il risultato è che anche il tempo narrativo si ferma. Come accade nello stagno di Bashō dove cade la rana63, si giunge dall’altra parte dell’eternità, nel mondo del “tempo senza tempo”64. E’ lo stato di mushin65 e il poeta risiede in questo mondo senza tempo, dove le immagini sono esperibili nella loro purezza e la realtà si esprime nella purezza delle immagini.
Vi sono all’interno di Yama no oto tre figure principali che restituiscono l’idea della preponderanza delle immagini sulla mera realtà oggettiva. La prima riguarda la similitudine tra la posizione assunta da uno dei cuccioli di Teru, la cagna ospite della casa di Shingo, e un dipinto ad inchiostro di china monocromo 66 di Sōtatsu67:
Alla fine Teru si alzò, si liberò dei cuccioli scuotendosi e corse giù dal terrapieno. Un cucciolo nero che era rimasto attaccato alle mammelle con particolare ostinazione, [nell’occasione] cadde rotolando dalla collinetta.
Poiché era caduto da un’altezza di poco meno di un metro68, Shingo trasalì. Il cucciolo si rialzò tranquillo come se nulla fosse e con aria intontita stette lì per qualche secondo, poi cominciò a camminare e annusò il suolo.
«Cos’era?» pensò Shingo. Ebbe la sensazione di avere visto per la prima volta in quel momento la posa del cucciolo, ma anche di averla vista, così com’era, in precedenza. Shingo stette a pensare per un po’.
«Ecco! Era il dipinto d’inchiostro di china di Sōtatsu», mormorò tra sé.
«Eh, è notevole!»
Shingo aveva visto di sfuggita una riproduzione fotografica del dipinto d’inchiostro del cucciolo di Sōtatsu. Il fatto è che aveva pensato che il cucciolo fosse come un giocattolo stilizzato, si meravigliò quindi quando si accorse che si trattava di una riproduzione della vita reale. Se si aggiungeva dignità ed eleganza alla figura del cucciolo nero che stava guardando in quel momento, si otteneva esattamente il dipinto di Sōtatsu.69
Shingo viene particolarmente colpito dalla posa del cucciolo e ciò gli restituisce un’emozione immediata, come se l’avesse vista “per la prima volta”. La posa, però, viene allo stesso tempo accostata al dipinto di Sōtatsu, il quale è sì più stilizzato dell’immagine reale, ma possiede maggiore “dignità ed eleganza”. Le rappresentazioni della realtà che l’arte (in questo caso la pittura) ci propongono, perciò, hanno caratteristiche del tutto speciali:
Nonostante Shingo se lo aspettasse nel profondo del cuore, né il cucciolo nero né gli altri cuccioli mostrarono più la grazia del dipinto di Sōtatsu.
Sia il fatto del cucciolo che era diventato un quadro di Sōtatsu, sia quello della maschera Jidō che era diventata una donna reale, entrambi questi avvenimenti e il loro opposto erano stati rivelazioni casuali, pensò Shingo.70
Le immagini, al contrario della nuda realtà, infatti, non si ripetono mai uguali a sé stesse, e sono generate da avvenimenti del tutto “casuali”, imprevedibili ed immediati.
Nel brano si fa riferimento alle maschere Nō le quali provocano in Shingo un effetto simile a quello del cucciolo. Shingo le acquista da Suzumoto il quale le ha avute dalla vedova di Mizuta per poterle rivendere. Per vedere come sono, ne fa provare una ad Eiko, l’impiegata. La maschera Jidō sortisce questo effetto sul suo volto:
Eiko stava così seduta e muoveva la maschera in varie direzioni.
«Splendido, splendido», disse Shingo senza pensare. Con quei soli movimenti, la maschera aveva acquistato vita.
Eiko indossava un vestito color rosso scuro e aveva i capelli ondulati che uscivano dai due lati della maschera, sembrava avere un fascino che avvolgeva Shingo.71
Eiko non è più Eiko, diventa un tutt’uno con la maschera Jidō e la loro fusione provoca l’immagine della maschera che diventa reale, tangibile, a tal punto che, ad osservarla con calma e da solo, Shingo si trattiene a stento dal baciarla:
Allorché avvicinò gli occhi da sopra, la pelle, liscia come quella di una fanciulla, portò sollievo agli occhi da vecchio di Shingo e la maschera gli sorrise piena di vita e col calore della pelle umana.
«Ah!», Shingo trattenne il fiato. A una distanza di circa dieci centimetri72 dal viso, una donna viva gli sorrideva. Era un sorriso di una purezza bellissima.
Gli occhi e la bocca avevano preso davvero vita. Al posto dei fori vuoti c’erano le nere pupille. Le labbra rosse sembravano umide e sensuali.
Shingo, trattenendo il respiro, avvicinò così tanto il naso che le pupille nere galleggiarono verso di lui, e la carne del labbro inferiore si gonfiò. Shingo per poco non la baciò. Emettendo un profondo sospiro, Shingo si allontanò dal viso.
Prese le distanze, gli sembrò tutto irreale. Per un po’ Shingo respirò con affanno.
[…]
Shingo ebbe l’impressione di avere visto l’interno del labbro inferiore della maschera Jidō, dove il colore rosso antico della bocca sfumava dai bordi all’interno delle labbra. La bocca era leggermente aperta e non c’erano denti dietro il labbro inferiore. Le labbra erano come boccioli di fiore sulla neve.73
Più avanti è Kikuko a provarsi la stessa maschera e, ancora una volta, il miracolo si compie:
Poiché il viso di Kikuko era minuto, la maschera lo copriva quasi fin alla punta del mento. Dalla punta del mento che si vedeva sì e no fluivano delle lacrime sulla gola. Le lacrime continuavano a fluire, erano due, poi tre.
«Kikuko», la chiamò Shingo.
«Kikuko, se ti separassi da Shūichi, hai pensato che potresti insegnare la cerimonia del te, come l’amica che hai incontrato oggi?»
Kikuko-Jidō fece segno di sì.74
Kikuko e la maschera Jidō, come era stato per Eiko, si identificano e la loro immagine, immediata e improvvisa, si sovrappone al reale.
Talvolta le immagini trasformano la bruttezza in bellezza, purificando il reale, come avviene in questo brano:
Shingo pensò al dipinto in inchiostro monocromo75 di Watanabe Kazan76 che aveva visto a casa di un amico quattro o cinque giorni prima.
Sul dipinto era rappresentato un corvo sulla cima di un albero morto. Era intitolato:
«Un corvo ostinato all’alba, la pioggia del quinto mese. Kazan».
Leggendo quei versi, Shingo comprese il significato del dipinto e i sentimenti di Kazan.
Era la figura di un corvo che, in cima ad una albero secco, mentre resisteva alla pioggia e al vento sferzanti, attendeva l’alba. La scena mostrava con inchiostro di china leggero la pioggia che cadeva battendo. Shingo non si ricordava bene la forma dell’albero secco, ma egli pensò che fosse solo uno spesso tronco, spezzato ed isolato. Si ricordava bene la figura del corvo. Forse perché dormiva o perché era stato bagnato dalla pioggia, o per entrambe queste ragioni, il corvo era un po’ gonfio. Aveva un grosso becco. Nella parte superiore del becco l’inchiostro era sbiadito, ed essa sembrava così più grossa e spessa. Gli occhi erano aperti, ma addormentati, come se non si fosse ancora svegliato completamente. Eppure erano forti e come se fossero pieni d’ira. La figura del corvo era stata disegnata piuttosto grande per la dimensione del dipinto.
Shingo sapeva solamente che Kazan era vissuto in grande povertà e si era ucciso facendo seppuku77. Tuttavia, l’illustrazione del «corvo all’alba sotto la pioggia e il vento» esprimeva con efficacia il sentimento di Kazan all’epoca. Era certo che il suo amico avesse messo il dipinto nel tokonoma78 per accordarlo con la stagione.
«Un corvo di carattere molto ostinato!» aveva commentato Shingo.79
Il corvo qui rappresenta la minuziosa trasfigurazione, nell’ideale dell’arte, dell’ostinazione e dell’orgoglio di fronte alle difficoltà della vita. Shingo capisce i sentimenti del pittore, perché sono quasi gli stessi che egli prova in quel momento, aspettando l’alba nella pioggia autunnale. Il dipinto assume una realisticità e uno spessore che, come nel caso del cucciolo di Sōtatsu e delle maschere Nō, conferiscono una vitalità particolare al corvo, rendendo ancor più significativa l’esperienza di stenti e avversità di Kazan.
Il processo di scoperta e di espressione della bellezza diventa quindi il punto nodale dell’esperienza artistica, come viene delineato in modo chiaro ed eloquente da Kawabata nel suo saggio Bi no sonzai to hakken80, il testo di una conferenza da lui tenuta nell’università delle Hawai nell’estate del 1969. In questo contesto l’autore prende spunto da un’esperienza occorsagli nell’Hotel Hilton di Kahala, nelle isole Hawaii. Si trovava su di una terrazza, al tramonto, sulla quale erano disposti dei tavoli da pranzo con i bicchieri rovesciati sopra, già pronti per la cena. Con il sole tropicale, i bicchieri brillarono in modo forte alla base, in modo più delicato all’estremità superiore, in modo da produrre un effetto di luce bellissimo, intenso ed effimero: “quel riflesso, del tipo che non si nota se non ci si pone attenzione, crea una bellezza pura”81.
Una esperienza della bellezza, dunque, resa disponibile solo a chi è in grado di coglierla. Il protagonista di Yama no oto, grazie al fatto di essere vicino alla morte, sembra averne le capacità. La morte, infatti, “indebolendo l’attaccamento dell’uomo verso la vita, lo porta a risolvere la contraddizione della concezione dualistica della coscienza, rendendo così possibile la percezione immediata e spontanea della natura”82.
Nella percezione ed espressione della bellezza il tempo si ferma: si tratta di quello che Takeda Katsuhiko definisce l’aion, l’istante verticale, il tempo degli dei “ritagliato in un tratto dell’orizzontale fluire del tempo”83. Nel campo della letteratura l’aion è il tempo del lirismo, che si contrappone al kairos, il tempo in eterno fluire, il tempo degli uomini84. Nell’aion accade che:
il lettore trascinato dalla bellezza del mondo evocato dai poeti dimentichi i limiti del tempo. Come in una pittura. Chi osserva un dipinto guarda uno dopo l’altro e da varie angolazioni le nuvole del cielo, le case tra la neve, gli alberi dai rami nudi. Il suo animo è rapito da innumerevoli immagini che creano sezioni di tempo isolate dal suo fluire”85.
Se il tempo si ferma per dare rilievo all’istante lirico, la spinta narrativa finisce per giungere ad un empasse.
4.4 L’impulso antinarrativo e le sue modalità
Abbiamo visto come in Yama no oto la spinta narrativa si affievolisca notevolmente, per scomparire talvolta del tutto. In effetti, c’è chi sostiene che i romanzi di Kawabata non possano neppure essere definiti tali86. Ne è convinto perfino Seidensticker, il quale sostiene che “Una delle più problematiche caratteristiche della moderna narrativa giapponese è la tendenza dei romanzi a non sembrare tanto tali, quanto raccolte di brevi racconti”87.
Seppure questa coesione narrativa non è presente a livello formale, è internamente presente un collante alternativo che consenta al lettore di leggere il romanzo di Kawabata come un qualcosa che abbia una sua giustificata organicità. Il punto di partenza potrebbe essere la visione del protagonista. Ciò che risalta, infatti, da quella maglia di giustapposizioni e parallelismi che sottendono all’opera è che Yama no oto sembra funzionare, secondo Mishima, come “successione reattiva dei sentimenti irrazionalmente provocati da una emozione, come se dipendessero da libera associazione”88. Le “vedute liriche” di Shingo sostituirebbero, perciò, la continuità data dalla concatenazione strettamente causale in modo che la percezione del protagonista rappresenti l’unica vera fonte di informazioni sulla realtà. In questo consiste l’aspetto lirico di Yama no oto89. In particolare, Kawabata utilizza le percezioni olfattive, tattili e gustative e, solo in seconda analisi, visive, per costruire le visioni del protagonista: le prime tre sono facoltà legate ad uno sviluppo più primitivo rispetto alle facoltà visive, che si sono formate in un tempo più recente nella storia dell’evoluzione dell’uomo. Il parallelo è con la percezione della realtà dei bambini90e non risulta casuale che Kawabata tenesse in grande considerazione le composizioni di quest’ultimi, di cui apprezzava la creatività e la freschezza del linguaggio91.
Sarebbe un errore, tuttavia, confondere la liricità di molti passi di Yama no oto con uno slancio lirico ipso facto dello scrittore. Infatti questo effetto in Kawabata è appositamente indotto nel lettore, anzi, come sostiene Starrs, “calcolato con precisione”92.
La strategia della visione lirica del protagonista, per quanto presente, non sembra essere però l’unico filo conduttore della prosa, la quale doveva rispondere anche all’esigenza di poter legare, anche se in modo non ortodosso, quelle percezioni tra loro. Kawabata sembra ispirarsi ancora una volta alla tradizione per colmare questa mancanza, in particolare a quella forma compositiva che si chiama renga93. Originaria del XII secolo trae origine da un tanka94 il cui emistichio superiore (kami no ku, 5-7-5) è diviso da quello inferiore (shimo no ku, 7-7) e, insieme, formano il primo mattone di una sequenza di strofe (ku)95che normalmente arrivano a cento ma possono anche giungere a mille o diecimila. I poeti che contribuiscono alla composizione devono essere almeno due e mai due ku consecutivi devono essere composti dallo stesso poeta. Una serie intricata di ulteriori regole garantisce la variabilità e la freschezza, che sono ciò che conferisce corpo al renga96. Mai, infatti, i poeti sanno dove il renga giunga: il tema non viene fissato in anticipo perciò i ku sono collegati tra loro per mezzo di associazioni.
Questa impossibilità strutturale di una progressione lineare, unita ad una apertura verso infinite opportunità di sviluppo che scaturivano dal fatto che il poeta non sapesse mai dove si andasse a finire, rendevano l’interazione continua, dinamica e organica97. In questo contesto l’uso della poesia viene spesso accostato a quello che ne facevano i surrealisti, a Bréton in particolare98. Ciò trova fondamento nell’apprezzamento di quella corrente artistica da parte della Shinkankakuha.
Grazie a questa intricata serie di regole, perciò, la pratica del renga di fatto favoriva l’annullamento del singolo individuo nel contesto della poesia. Questa progressiva scomparsa del soggetto99 fornisce al renga una estrema modernità e, secondo Starrs, in questo senso se ne ravvisano le radici nel Buddismo Zen100.
Nella mancanza di una qualsiasi progettualità e nelle sue possibilità liriche grazie all’annullamento della divisione soggetto/oggetto, il renga sembra possedere perciò le caratteristiche per estinguere qualsiasi spunto narrativo, perciò qualsiasi concatenazione strettamente causale.
Come struttura compositiva il renga, quindi, viaggia in direzione marcatamente opposta a quella della narrativa, ma sarebbe inesatto dire che è privo di qualsiasi tensione. Più correttamente, la spinta che sottende al renga è “antinarrativa” dove quell”anti” esprime la positività, la presenza, piuttosto che l’assenza di qualcosa, che si oppone alla narrazione strettamente lineare e la sostituisce.
Anche la narrativa di Kawabata risponde perciò a delle regole che non sono, ovviamente, quelle del romanzo occidentale, ma sono in una certa misura assimilabili a quelle del renga. Innanzitutto molte delle suggestioni che vengono indotte sono causate da quell’effetto che in cinematografia si ottiene grazie alla sovrapposizione o alla rapida successione di immagini, spesso senza una concatenazione esplicitamente causale101. Grazie alle sue capacità elaborative, la mente umana crea automaticamente le connessioni tra le varie immagini, riempie cioè i vuoti tra un’immagine e le successive102. E’ in questo senso l’occhio di riguardo è ancora una volta rivolto verso il lettore, in particolare al lettore medio della società giapponese dell’epoca103, nella mente del quale Kawabata desidera evocare associazioni, mostrare più che dire, “presumendo nel lettore l’energia potenziale necessaria per ricostruire in un insieme unico quanto spesso giunge in pezzi frammentati”104. L’intento dell’uso sapiente di questa tecnica di sovrapposizione ed accostamento da parte di Kawabata è quello perciò di estendere le possibilità della prosa, enfatizzandone le possibilità allusive.
La ricerca costante, perciò, di una narrativa che suggerisce ed evoca, prima che affermare, porta lo scrittore a presentare immagini che di per sé sono semplici, spesso legate alla tradizione culturale giapponese, ma che rimandano a significati più oscuri ed impliciti e possiedono perciò una forte valenza simbolica. Le rappresentazioni della luna, della neve, dei fiori di ciliegio e del ginko sono solo alcuni di questi simboli105. Ecco come Kawabata utilizza le immagini della luna e delle fiamme:
La città risplendeva nella luce della luna, Shingo guardò verso il cielo.
La luna era immersa in una fiamma. Shingo, almeno, ebbe questa sensazione momentanea.
Le nuvole attorno alla luna avevano una forma curiosa, facevano pensare o alle fiamme dietro ai dipinti Fudō106 o ai fuochi fatui. Erano fiamme dipinte in un quadro.
Tuttavia le fiamme delle nuvole erano fredde, e di un bianco opaco, anche la luna era fredda ed opaca. Improvvisamente Shingo sentì l’autunno penetrare dentro di lui.
La luna era ad oriente, quasi piena. In mezzo alle nuvole di fiamma, essa sfumava leggermente nelle nuvole alle estremità.
Oltre alle nuvole candide che contenevano la luna, non vi erano altre nuvole nelle vicinanze. Il colore del cielo, una sola notte dopo il temporale, era diventato nero cupo.
I negozi della città erano chiusi, e anch’essa, in una sola notte, aveva preso una aspetto malinconico. Le persone tornavano a casa dal cinema percorrendo strade silenziose.107
Shingo sta tornando a casa dopo aver visto un film con la moglie, il figlio e la nuora. Lo sguardo va verso il cielo e, immediatamente, i suoi sensi si perdono nelle nuvole fiammeggianti che avvolgono la luna. Il linguaggio è semplice e vi sono numerose ripetizioni, ma è allo stesso tempo allusivo ed elegante, conferendo una valenza simbolica e misteriosa al brano108. Più avanti, i pensieri di Shingo sembrano chiarirne il senso:
Aveva avuto la sensazione di essere giunto più che mai ad un momento decisivo della vita. Gli sembrò che urgesse prendere una decisione.109
Le immagini della luna e della fiamme, perciò, sembrano possedere una valenza simbolica che si estende alle persone. Come sostiene Kenneth “Nella misura in cui le emozioni umane soggettive sono diffuse e oggettivate negli oggetti inanimati della natura, questa diviene la controparte della personalità umana” 110.
Già nella poesia classica giapponese le immagini della luna, della neve e dei ciliegio in fiore erano manifestazioni non solo della bellezza della natura, ma anche dei sentimenti umani. E’ ancora più chiaro, perciò, il legame tra la narrativa di Kawabata e forme compositive più antiche come haiku e renga.
A fronte della sua apparente semplicità, tuttavia, queste oggetti possono assumere svariate valenze simboliche, ciascuna con una sua giustificata validità. Quale possa poi essere quella intesa da Kawabata, non ci è dato saperlo né pare plausibile che lo scrittore volesse darci un’interpretazione chiara e definita della realtà.
Uno dei simboli più ricorrenti in Yama no oto è quello del ciliegio. La sua valenza più immediata è legata in Giappone alla visione tradizionale dei suoi fiori come manifestazione della bellezza effimera. Essi, infatti, cadono pochi giorni dopo che sono sbocciati. Esistono, tuttavia, altre valenze meno apparenti che compaiono un po’ lungo tutto il romanzo e che dipendono dal contesto in cui l’immagine è evocata. Quasi sempre il ciliegio è legato alle situazioni dei personaggi nel romanzo e in genere funziona da punto catalizzatore dell’attenzione del protagonista e, con lui, del lettore. In ben cinque occasioni le cicale volano verso il ciliegio o sono da esso attratte, quasi come la sua figura possedesse una forza magnetica. Spesso, inoltre, l’attenzione di Shingo è concentrata sulla sua figura e in un caso succede poco prima che Shingo oda il suono della montagna. Il ciliegio, inoltre, è collegato ai problemi famigliari del protagonista: quello che Shingo ha in giardino, infatti, è parzialmente coperto da un cespuglio di yatsude che Shingo si decide a potare (ma non tagliare completamente) dopo l’aborto di Kikuko e quando si intuisce che ormai la relazione tra Shūichi e l’amante Kinuko è al capolinea. Dopo averlo potato, infatti, Kikuko sembra davvero felice, il suo viso è radioso, e Shingo nota che è da tanto tempo che non la vedeva così.
Rispetto al ciliegio, la figura del ginko è più maestosa e più resistente. Se questa è la valenza simbolica più evidente che l’albero ricopre un po’ per tutto il romanzo, cioè quella della forza e della resistenza, ve n’è una, tuttavia, più discreta e meno visibile. Al principio del quarto capitolo Kawabata ci spiega la disposizione dei famigliari a tavola, le posizioni occupate e la loro vista da quella posizione. Shingo e Kikuko danno uno di faccia all’altro e l’albero di ginko si trova proprio di fronte a lui, nella stessa porzione visiva dell’immagine di Kikuko. Questa, al contrario, siede sempre di spalle all’albero e oltretutto non lo osserva quasi mai, tanto che Shingo la rimprovera di non guardarlo. La grande pianta sembra perciò legata in qualche modo al rapporto tra Shingo e Kikuko, tanto che lo si ritrova di fronte a quest’ultima quando Shingo la incontra nel parco imperiale.
Perciò il simbolo, pur avendo una sua valenza più superficiale, ne contiene altre più nascoste e sfuggenti. In molta prosa di Kawabata sembra di poter scorgere un significato recondito, spesso elusivo, di cui lo scrittore non ci dà spiegazione e non sembra neppure fornire nessun strumento necessario per l’interpretazione, quasi come se non fosse interessato a mostrare un’associazione univoca con contenuti strettamente semantici, ma più a indurre artatamente nel lettore sensazioni, stati emotivi.
Questo accostamento di suggestioni, le quali variano per intensità e qualità a formare il tessuto del romanzo, è assimilabile a quel procedimento che Burke chiama “progressione qualitativa”111, la quale funziona nei dettagli in questo modo: ad una scena che induce nel lettore un certo umore, viene fatta seguire una scena di tono totalmente diverso da quello che ci si aspetterebbe, spesso più elevato. Ad esempio, dopo che Kawabata ci ha presentato un brano dalle valenze quasi drammatiche, mostrandoci Shingo che pensa ai suoi problemi polmonari, osserva il vecchio corpo della moglie che dorme e ne ascolta il russare, ci offre questa descrizione della natura dal tono sostenuto e lirico, che contrasta notevolmente con la parte precedente. Vale la pena citarlo per intero:
Era una notte di luna piena.
Penzolava dalla finestra un vestito di Kikuko. Era di un brutto colore bianco pallido. Shingo pensò: «Si sono dimenticati di tirare dentro il bucato?» Ma forse l’avevano lasciato nella rugiada appositamente per togliere le macchie di sudore.
«Cri, cri, cri», gridi striduli si udivano nel giardino. Erano cicale sul tronco del ciliegio a sinistra. Non si immaginava che le cicale potessero gridare in modo così stridulo, però si trattava di cicale.
Poteva darsi che una cicala avesse degli incubi?
Una cicala volò all’interno e si fermò sull’orlo della zanzariera.
Shingo afferrò la cicala, che non emise alcun suono.
«E’ muta», mormorò Shingo. Poteva non essere una delle cicale che aveva gridato.
Perché non volasse nuovamente, attratta per sbaglio, verso la luce, Shingo scagliò la cicala mirando verso la cima del ciliegio a sinistra, con tutta la sua forza. Nella sua mano sinistra non c’era più nulla.
Appoggiandosi alla finestra, Shingo guardò in direzione del ciliegio. Non sapeva se la cicala si fosse fermata o meno là. Sembrava che la notte di luna fosse profonda, si avvertiva quella profondità da tutti i lati, in lontananza.
Sebbene agosto fosse cominciato da poco, si udivano già gli insetti cantare.
Si udiva anche il suono della rugiada che gocciolava da una foglia all’altra.
Poi, improvvisamente, Shingo udì il suono della montagna.
Non c’era vento. La luna era luminosa, quasi piena, ma l’aria notturna era umida, i contorni degli alberi che delineavano la cima della collina erano confusi. Essi, tuttavia, erano immobili.
Neppure una foglia della felce sotto la veranda dov’era Shingo si muoveva.
Nei recessi della cosiddetta yato, la valle di Kamakura, anche nella notte si udivano le onde, quindi Shingo pensò che potesse trattarsi del suono del mare, ma era invece il suono della montagna.
Somigliava al suono del vento lontano, ma possedeva una forza profonda come fossero rimbombi della terra. Pensando che fosse un ronzio nel suo orecchio, poiché giungeva fin dentro la sua testa, Shingo provò a scuoterla.
Il suono smise.
Dopo che il suono ebbe cessato, Shingo ebbe per la prima volta paura. Rabbrividì pensando che si potesse trattare del preannuncio della morte.
Shingo pensò di aver riflettuto con calma se si fosse trattato del suono del vento, del mare o di un ronzio nell’orecchio, ma non si trattava di un suono simile. Era sicuramente, tuttavia, il suono della montagna.
Era come se fosse passato un demonio, facendo risuonare la montagna.
A causa della notte luminosa e piena d’umidità, l’erta ripida del lato anteriore della montagna sembrava erigersi come un muro oscuro. Poiché era una montagna così piccola che rientrava interamente nel giardino della casa di Shingo, quella muraglia sembrava un uovo tagliato a metà.
C’erano altre colline a lato e dietro la collina, ma quel suono sembrava fosse giunto da quella particolare collina alle spalle della casa di Shingo.112
Dopo aver ascoltato il russare della moglie, Shingo apre la finestra, la quale, in questo senso, funziona da tramite tra due mondi, come già visto nel capitolo precedente. La luna è qui simbolo di bellezza e di calma. La sua luce illumina i vestiti di Kikuko, che ci viene presentata così, indirettamente, per la prima volta. Gli stimoli uditivi, cioè il frinire delle cicale, si mescolano a quelli visivi: l’immagine del ciliegio “a sinistra”, ad indicare quasi come se anche il lettore potesse vederlo nel contesto della scena. Dall’immagine delle cicale sul ciliegio si passa ad un’esperienza tattile: Shingo ne afferra una e constata che è muta. Questa “sensazione” di silenzio si estende anche allo spazio intorno alla casa, illuminato dalla luna, quasi tangibile. Poi la sfera tattile lascia nuovamente il posto a quella uditiva: le cicale e gli insetti, le gocce di rugiada e, alla fine, il suono della montagna. A questo punto l’esperienza tattile (il vento, l’umido) si fonde con quella visiva: l’assoluta immobilità nonostante la presenza del vento. Ecco che la suggestione torna al suono della montagna, che viene scambiato da Shingo, in un primo tempo, con il rumore delle onde del mare. Quel suono è simile al rimbombo della terra stessa, di cui ne possiede la forza. Il paragone è un “demonio” che avesse scosso, passando, (e qui c’è l’associazione suono della montagna=passaggio del demonio=l’avvicinarsi della morte) la montagna e l’avesse fatta suonare. Le suggestioni tornano, quindi, ad essere visive, e l’autore ci restituisce le impressioni di Shingo sulla forma e la consistenza della montagna stessa, che altro non è se non un terrapieno dietro casa sua.
Questo brano è quasi esclusivamente costruito su suggestioni che, utilizzate nel senso descritto da Burke, rappresentano uno dei collanti tramite il quale si regge la delicata economia dell’opera. Starrs suggerisce di chiamare le progressioni qualitative “salti qualitativi”113 proprio perché in Kawabata non riflettono una concatenazione strettamente causale.
Il brano è a pieno titolo considerato uno dei capolavori della prosa di Kawabata. Come sostiene Starrs, è attraverso questi passi che traspare il valore lirico della sua narrativa114.
Poco più avanti nel romanzo, Shingo ha appena udito il suono della montagna e si appresta a chiudere le persiane quando gli viene in mente l’episodio di tentato suicidio narratogli dalla geisha nella casa da tè115. La reminescenza è evocata dal fatto che Shingo pensa alla sua morte e gli viene in mente quella tentata dalla geisha. Questa tecnica di transizione da una scena all’altra grazie ad una associazione nella mente del personaggio centrale, un po’ come accade con il filo conduttore del renga, è quella che Burke chiama “progressione associativa”116. Dal momento che il tono del brano della geisha, apertamente ironico, è diverso da quello che lo precede, ecco che il salto qualitativo si abbina a quello associativo117.
Queste tecniche antinarrative, perciò, si uniscono e contribuiscono a creare la prosa di Kawabata, quella che Konishi Jun’ichi, associandola al renga, chiama “sinfonia di immagini”118, enfatizzando l’aspetto antinarrativo e strettamente associativo. Eppure, come in una sinfonia musicale, vi è un motivo ricorrente che si esprime in una infinità di scale diverse. Sono, perciò, “forme ripetitive”119 che operano come successioni di immagini che presentano lo stesso tono, ma con delle piccole differenze, come nei due passi in cui si parla del fiorire dei semi di loto dopo secoli120.
La prosa di Kawabata, quindi, è forte di tensione antinarrativa che non significa, però, assenza totale di una spinta, di un movimento. Come nella musica, il movimento non sempre è suggerito da concatenazioni causali, ma da sottili richiami e da ripetizioni sul tema.
4.5 Esempi di uso degli schemi temporali e relativo grafico
4.5.1 Premessa metodologica
In appendice sono riportati due schemi temporali e un grafico. Il principio ispiratore della loro redazione risponde ad una doppia esigenza. Da un lato è stato necessario approntare uno strumento che consentisse di individuare con precisione il flusso temporale del romanzo e, perciò, notarne le “anomalie”. E’ stato, quindi, uno strumento importante per la compilazione di questo lavoro. Il secondo principio ispiratore si identifica con la necessità di facilitare il lettore, il quale abbia più o meno confidenza con Yama no oto, ad avere un quadro abbastanza completo non solo degli avvenimenti salienti nel romanzo, ma alla loro collocazione all’interno dello sviluppo narrativo.
Lo schema temporale sinottico mostra, in una sola tavola, gli avvenimenti principali del romanzo. Esso è di supporto allo schema temporale dettagliato e rivolto al lettore che già ne abbia dimestichezza.
Il grafico temporale mostra le variazioni temporali rispetto al flusso narrativo principale. L’asse delle ascisse rappresenta appunto quel flusso e i quadratini lo scostamento degli avvenimenti salienti, indicati in ascissa da un numero, il quale fa riferimento allo schema temporale dettagliato. Sull’asse delle ordinate sono riportati i valori temporali. I quadratini rossi indicano un evento i cui riferimenti temporali nel romanzo sono abbastanza precisi, quelli gialli gli eventi che rimandano ad un passato imprecisato. I quadratini verdi hanno a che fare con un’incongruenza temporale desunta sulla base dei riferimenti temporali prossimali e non. I quadratini blu, invece, indicano un evento temporale fuori scala.
Lo schema temporale dettagliato presenta, innanzitutto, il titolo del capitolo a cui fa riferimento con il rispettivo numero. In ciascuno dei riferimenti temporali di ciascun capitolo è indicato:
- Il numero progressivo (per identificarlo nel grafico temporale).
- Il riferimento temporale in grassetto (in grassetto corsivo quelli che seguono il flusso narrativo principale, in grassetto normale gli altri).
- L’evento ed eventuali annotazioni.
- I riferimenti, rispettivamente, all’originale (KYZ, vol.12), alla traduzione in inglese di Edward Seidensticker (KAWABATA, Yasunari, The Sound of the Mountain, tr. di Edward Seidensticker, London, Secker and Warburg, 1970), a quella in italiano di Atsuko Ricco Suga (KAWABATA, Yasunari, Il suono della montagna, a cura di Atsuko Ricca Suga, Milano, Bompiani, 1991 (1969)) e alla sua recente revisione (KAWABATA, Yasunari, Il suono della montagna, trad. di Atsuko Ricco Suga, in Romanzi e racconti, Milano, Mondadori, 2003, pp. 437-714).
Ai fini della compilazione dello schema non sono stati tenuti in considerazione le interruzioni del flusso narrativo causate dai pensieri del protagonista o di uno qualsiasi dei personaggi, qualora non coincidano coi ricordi di avvenimenti. Questo perché ciò avrebbe richiesto un lungo studio approfondito in separata sede, dato il loro grande numero. Vi è un’altra considerazione non trascurabile, inoltre. In Giapponese i pronomi personali sono spesso omessi e quindi è talvolta difficile capire quando pensieri e opinioni sono una considerazione indiretta dell’autore-narratore e quando sono pensieri diretti del protagonista.
4.5.2 Esempi di uso
Osservando il grafico temporale, una caratteristica salta subito all’occhio: ci sono molte e significative variazioni temporali all’interno del romanzo. Esse corrispondono, perlopiù, ai pensieri del protagonista e ai suoi ricordi. Queste variazioni fluttuano anche all’interno di ogni singolo capitolo, e possono riferirsi ad eventi vicini nel tempo (ore prima) o a decenni prima, così come possono occupare poche righe o intere pagine.
Le fluttuazioni temporali possono essere o meno collegate con le strutture antinarrative della prosa di Kawabata che abbiamo incontrato nel corso di questo lavoro: in breve i simboli, i salti qualitativi ed associativi e le forme ripetitive. Possono, oppure, avere a che fare con quelle modalità che riguardano più specificatamente l’ottica del protagonista, cioè il suo personale modo per arginare lo scorrere del tempo: ricordi, sogni e fantasie di sonno secolare.
I capitoli che, in genere, hanno un più alto numero di salti temporali, come il primo o il quarto, possiedono anche un significativo numero di stratagemmi antinarrativi. Sul primo capitolo sono già state forniti numerosi esempi esplicativi, il quarto sembra altrettanto interessante.
Il capitolo si apre con la figura del ginko che germoglia fuori stagione (4,1121), un’immagine già di per sé abbastanza simbolica. La narrazione prosegue con la descrizione dei posti occupati a tavola dai famigliari, indugia nelle descrizioni del ciliegio e del ginko nel giardino di Shingo, collegate, e qui abbiamo la prima variazione temporale, con la loro perdita di foglie durante la notte di tifone (4,2) descritta nel capitolo terzo (3,2). Successivamente, mentre parla con Yasuko, Shingo nota degli amaranti, che gli fanno ricordare (salto associativo; 4,4) la testa di girasole per terra vista vicino a casa durante il capitolo secondo (qui la testa era simbolicamente legata a quella di Shingo e alla sua figura di eroe; 2,2-3, p. 68). Yasuko, invece sogna la casa di campagna (4,3) e solo successivamente si parla dei dettagli del sogno e di quella casa, che si trova a Shinshū, il luogo natale di Shingo, che è anche dove Shingo e Yasuko si sono sposati. C‘è il riferimento, quindi, ad un riccio di castagna (4,8; da qui il titolo del capitolo) caduto durante la cerimonia di nozze, circa trent’anni prima (4,9; altro salto temporale e salto associativo, perché Shingo si ricorda del riccio quando rievoca mentalmente le nozze). Sempre per salti associativi, stavolta meno marcati, dal riccio si passa a parlare del rapporto tra Yasuko e la sorella, poi morta, e al cognato (il marito della sorella; 4,10). La narrazione ritorna nuovamente, per un salto associativo, al flusso principale, cioè al telegramma che avvisa Shingo che Fusako è andata per qualche tempo a stare in quella casa di campagna (4,12), indi, (altro salto associativo) ai problemi di Fusako (4,13). Successivamente giunge la notizia della morte di Toriyama e la partecipazione di Shingo al suo funerale (4,14, pp. 49-51) i cui eventi rappresentano per Shingo l’occasione per riflettere, in una ridda di pensieri, sulla vecchiaia, la morte e la responsabilità dei genitori nei confronti dei figli (4,16, p. 51). Il sottocapitolo si chiude con un salto qualitativo, seppure breve, nel quale Shingo osserva dei passeri svolazzare nel tetto del tempio. Tornato in ufficio, Shingo intrattiene degli ospiti e comincia a pensare alle cince e ai passeri nel giardino di casa visti quella mattina mentre si lavava (4,17, p. 82). Il ricordo viene evocato dai passeri che vede nel tetto del tempio poco dopo il funerale di Toriyama e prima di tornare in ufficio (salto associativo). Successivamente Shingo convince Eiko a portarlo alla casa dell’amante di Shūichi, ad Hongō, ma Shingo non entra e finisce per tornare a casa (4,18).
Vi sono dei capitoli dove i salti temporali sono sporadici o abbastanza inconsistenti, tanto da far pensare che non siano presenti dispositivi antinarrativi. E’ il caso, ad esempio, dei capitoli quattordicesimo e quindicesimo. Il capitolo quattordicesimo presenta la particolarità di essere molto breve e di descrivere l’arco di una sola giornata della vita di Shingo, cioè quando si reca ad Hongō a parlare con Kinuko per convincerla ad abortire. (14,1) Vi è, però, nella parte finale, il sogno delle zanzare (14,6, pp. 64-65) che, per la sua estensione e per la sua valenza simbolica, ci mostra che non necessariamente l’assenza di salti temporali indichi la mancanza di strutture antinarrative. Nel capitolo quindicesimo, infatti, ci sono pochi salti temporali ma diversi salti qualitativi. Il primo è al principio, quando Shingo ci parla dei filari di acacia. Qui la descrizione dei fiori caduti e il sentimento di mono no aware del protagonista sono seguiti dalla brusca informazione che Shingo era tornato da una visita a un amico malato di cancro al fegato e perciò vicino alla morte (15,2, p. 81). Con un salto associativo, la caduta dei fiori di acacia è accostata alla morte prossima dell’amico e di riflesso alla incombente morte di Shingo. Un altro salto qualitativo è quando Shingo, dopo aver osservato (15,3, p. 89) il giovane che si prostituiva all’uomo occidentale, gira la testa e osserva le piante che crescono rigogliose dentro la fogna puzzolente (qui il salto di tono è meno forte ma comunque presente). Successivamente Shingo fa il sogno delle uova (15,4), poi c’è una “forma ripetitiva”, il riferimento cioè alla scena dei fiori di loto che fioriscono dopo secoli (15,6-7, pp. 70-71), di cui si era parlato in un capitolo precedente (10,5-6, p. 69-70). Subito dopo la scena dei fiori di loto c’è la fantasia di sonno di Shingo, che si immagina di poter dormire per secoli e svegliarsi in un mondo nuovo (15,7, p. 71). Conclude il capitolo un salto qualitativo: dalla scena del commiato all’amico appena morto di cancro al fegato si giunge alla telefonata di Kikuko a Shingo (15,9), nella quale ella lo avvisa che si è decisa a tornare a casa e che vuole incontrarlo prima al parco imperiale. Dopo la telefonata Shingo sente un dolce calore che lo riscalda.
Altri capitoli sono collegati tra loro da una serie di rimandi o di forme ripetitive. Ad esempio nel capitolo tredicesimo, mentre Shingo parla con Eiko in trattoria (13,12), viene ricordato il fatto di essere stati a ballare insieme (2,14) e lui ricorda di avere visto il fiocco bianco nei suoi capelli quel giorno, mentre era il giorno del tifone (3, tra 7 e 8). Altrove viene fatto riferimento (10,3), con una valenza simbolica, ai pini che Shingo scorge dal treno il giorno che Shūichi gli comunica che Kikuko ha abortito. Gli stessi pini ricompaiono successivamente (11,6), sempre mentre Shingo ripercorre quel tratto in treno. Stavolta, però, il protagonista non riesce a provare la stessa meraviglia di quando li osserva la prima volta, perché li associa con il ricordo dell’aborto e di lì con Kikuko. I rimandi, però, possono anche essere più sottili: nel capitolo quattordicesimo, ad esempio, durante il sogno delle zanzare (14,6, pp. 64-65) Shingo ricorda di essersi diviso in due e a uno dei due Shingo sono uscite fiammelle dalle maniche, quelle stesse fiamme che sembrano circondare le nuvole nel capitolo terzo (3,9, p. 101), accostandole ai dipinti Fudō.
Molte altre connessioni, perciò possono essere fatte sullo spunto degli schemi temporali e con la lettura attenta del testo. Questi esempi, lungi dal essere esaustivi, servono solo come illustrazioni di possibili letture e associazioni.
1 Dennis C. WASHBURN, The Dilemma of the Modern Japanese Fiction, New Haven, Yale University Press, 1995, p. 248.
2 ICHIHARA Yasuko,Estetica Letteraria di Kawabata Yasunari. Ritorno al passato, in AA.VV., Atti A.I.STU.GIA., XXI, 1997, Venezia, A.I.STU.GIA., 1998, pp. 247-248.
3 ŌE Kenzaburō, Japan, the Dubious and Myself, in Charles WEI-HSUN FU – Steven HEINE, Japan in Traditional and Postmodern Perspectives, New York, State University of New York Press, 1995, pp. 316-317. Ōe (1935-) fu il secondo scrittore giapponese, nel 1994, a laurearsi premio Nobel. Scrisse un discorso di accettazione per certi versi polemico rispetto a quello di Kawabata, al quale se ne ricollega con il titolo (Il Giappone, il “dubbio” e io).
4 [Appunti del guanciale] 枕草子, “opera in prosa del X secolo, composta di brevi e brevissime sezioni, nelle quali l’autrice, Sei Shōnagon, elenca una serie di “cose spiacevoli”, “cose piacevoli”, “cose che fanno ridere”, ecc. attraverso le quali ci offre una testimonianza immediata e realistica della vita di corte del X secolo” (Dal glossario a cura di Adriana BOSCARO in KATŌ Shūichi, Storia della Letteratura Giapponese, Vol. 1, Venezia, Marsilio, 1987, p. 323). Per la traduzione italiana, si veda SEI Shōnagon, Note del guanciale [Makura no sōshi], trad. di Lydia Origlia, Milano, SE, 1988. Come sostiene Mathy, quella di Kawabata è “una tradizione estetica e letteraria piuttosto che filosofica. E’ la tradizione di Ki no Tsurayuki, Murasaki Shikibu, Saigyō, Zeami e Bashō” in Francis MATHY, Kawabata Yasunari: Bridge Builder to the West, «Monumenta Nipponica», 24, N° 3, 1969, p. 212.
5 Come la definisce STARRS, Soundings in Time – The Fictive Art of Kawabata Yasunari, Richmond (Surrey, UK), Japan Library, 1998, p. 177.
6 Si veda Roy STARRS, The Anti-Narrative Impulse in Kawabata and the Renga in Jorma KIVISTÖ; Mika MERVIÖ; TAKAHASHI Mutsuko; Mark WALLER (edited by), Modulations (segue nota) in Tradition – Japan and Korea in a Changing World: Third Nordic Symposium of Japanese and Korean Studies held in Tampere 24-27 May 1992, Tampere, University of Tampere, 1993, pp. 1-13 e STARRS, Soundings in Time…, cit., pp. 154-191.
7 Aimai-na 曖昧な, si veda Ōe, cit., pp. 313-315.
8 PILARCIK,cit., pp. 15-16.
9 Richard L. KENNETH, The Tree of Life – Life Consciousness in Kawabata Literature, in Japon, Actes du XXIXe Congrès International des Orientalistes, Vol. 2, Paris, L’Asiateque, 1976, p. 104.
10 Come sostiene il poeta medievale Shōtetsu citato in Thomas RIMER, Modern Japanese Fiction and Its Traditions, Princeton (New Jersey), Princeton University Press, 1978, p. 15.
11 Aristocratico di corte poi ritiratosi in eremitaggio, scrisse il famoso Ricordi di un eremo [Hōjōki] nel quale descrive i vantaggi di una vita di isolamento e tranquillità lontano dal trambusto della vita cittadina.
12 Citato in PILARCIK, cit., p. 204.
13 SUZUKI Daisetz T., Zen and Japanese Culture, New York, Bollingen Foundation, 1959, pp. 23-24.
14 Ibid., pp. 24-25.
15 Si veda PILARCIK, cit., p. 205.
16 La definizione di questo concetto si deve a Motōri Norinaga (1730-1801) che lo ha codificato in piena epoca Tokugawa e elevato a elemento essenziale della cultura nipponica.
17 E’ implicito, infatti, il concetto di transitorietà non soltanto nell’oggetto percepito, ma anche nel soggetto che percepisce. Si legga STARRS, Soundings in Time…, cit., p. 188.
18 RIMER, cit., p. 14.
19 KYZ, vol. 12, p. 501. Cfr. SEID p. 240, SUGA p. 251 e SUGA 2 p. 679.
20 ŌE, cit., pp. 317-318.
21 RYAN, cit., pp. 257-258.
22 Idem e HASEGAWA Izumi, Continuity and Discontinuity in Modern Japanese Literature, «Acta Asiatica», 56, 1989, p. 87.
23 KYZ, vol. 12, p. 315. Cfr. SEID p. 71, SUGA pp. 72-73 e SUGA 2 p. 506.
24 RYAN, cit., pp. 262-266.
25 HASEGAWA, cit., p. 80.
26 Thom PALMER, The Asymmetrical Garden: Discovering Yasunari Kawabata, «Southwest Review», 74, 3 (Summer 1989), p. 392.
27 Dennis C. WASHBURN, The Dilemma of the Modern Japanese Fiction, New Haven, Yale University Press, 1995, p. 247.
28 Ibid., p. 248.
29 Ibid., p. 257.
30 Nel suo saggio Makura no sōshi, citato in HASEGAWA, cit., p. 80.
31 Ibid., p. 81.
32 Diario di un’effimera かげろふ日記. Si tratta di una delle opere più importanti del periodo Heian. Si sa molto poco dell’autrice nota come la “madre di Michitsuna”. Il diario narra le vicende private e le contrarietà della vita dell’autrice nel periodo dal 954 al 974. Per la traduzione in inglese, si veda Edward SEIDENSTICKER (edit. By), The Gossamer Years, Tōkyō, Charles E. Tuttle, 1974.
33 Seidensticker stesso riconoscerà i limiti e le difficoltà delle traduzioni in Edward SEIDENSTICKER, Translation: What good does it do? In Jean TOYAMA – Nobuko OCHNER (a cura di), Literary Relations East and West, Vol. 4, Honolulu, University of Hawaii Press, 1991, pp. 177-184. Cfr. Anche PETERSEN, cit. p. 124.
34 SEIDESTICKER, Translation: What good does it do?, cit., p. 179.
35 PALMER, cit., p. 391.
36 Utsukushii Nihon no watakushi, KYZ, vol. 28, p. 353. Cfr. la traduzione di Ornella Civardi in KAWABATA Yasunari, Racconti in un palmo di mano, cit., p. 52 e di Maria Teresa Orsi in KAWABATA Yasunari, Romanzi e racconti, cit., p. 1248. Kawabata parla dell’asimmetria anche in relazione con la disposizione di sabbia e rocce nel giardino di ispirazione Zen, la quale (segue nota) ruota su di un effetto di irregolarità e di tensione verso il vuoto e l’infinito, restituendo l’idea che non possa mai possedere una sua compiuta perfezione. Si legga Isabella CACIOLLI, Giardino giapponese in Marco VANNUCCHI, Progettare con il verde vol. IV: il Giardino storia e tipi, Firenze,Alinea, 1996 (2° ed.), pp. 120-135.
37 In realtà, David Pollack sostiene che la letteratura è necessariamente legata ad una espressione di pensiero, e perciò ad una ideologia, cfr. David POLLACK, Reading Against Culture: Ideology and Narrative in the Japanese Novel, Ithaca, Cornell University, 1992. La narrativa di Kawabata non fa eccezione e risponde, secondo Pollack, ad una “ideologia dell’estetica” strettamente articolata che si oppone alla più superficiale ”estetica del vuoto”. Si vedano le pp. 100-120.
38 RYAN, cit., p. 266.
39 Paul VALÉRY, Aesthetics, tran. by Ralph Manheim, New York, Pantheon Books, 1964, p.66, citato in STARRS, Soundings in Time…, cit., p. 171.
40 PALMER, cit., p. 397.
41 L’aggettivo utilizzato da Kawabata è kiyorakana (清らかな), il sostantivo è junsui (純粋, purezza, genuinità) .
42 ICHIHARA, cit., p. 255.
43 Ibid. p. 256.
44 Kawabata descrive la sua abitudine di fissare le persone in Hinata. McClellan riferisce un episodio nel quale Kawabata riesce a fare piangere una redattrice inesperta semplicemente fissandola, senza dire nulla. Citato in GESSEL, cit., p. 143.
45 悟り significa risveglio spirituale, illuminazione, realizzazione.
46 Lo haikai (俳諧) è la forma poetica dalla quale in seguito si svilupperà lo haiku. Non vi è una netta distinzione tra haiku, haikai e hokku (lett. “verso che inizia”), e in genere oggigiorno la parola haiku li ingloba tutti (dal glossario di Adriana BOSCARO a KATŌ Shūichi, Storia della Letteratura Giapponese, Vol. 3, Venezia, Marsilio, 1996, p. 300.
47 STARRS, Soundings in Time…, cit., p. 119.
48 “Sōkai no/Nami sake-kusashi/Kyō no tsuki”in UEDA Makoto, Matsuo Bashō, Tōkyō and New York, Kodansha International, 1982, p. 41. Qui Bashō esprime, attraverso la giustapposizione, il contrasto umoristico tra le immagini poetiche dell’oceano e quelle del profumo del sake, il quale evoca un’atmosfera conviviale.
49 “Ran no ka ya/Chō no tsubasa ni/Takimono su” in ibid., p. 48. E’ possibile notare l’uso della sinestesia: odori si mescolano a immagini visive.
50 “Kono michi ya/Yuku hito nashi ni/Aki no kure”in ibid., p. 61. La strada descritta da Bashō è qui letterale e simbolica, accostata alla sera d’autunno. Le immagini, oltre che la natura, possono riguardare anche gli uomini.
51 STARRS, Soundings in Time…,cit., p. 121.
52 KYZ, vol. 12, p. 504. Cfr. SEID p. 243, SUGA pp. 254-255 e SUGA 2 pp. 682-683.
53 Anthony V. LIMAN, Kawabata’s Lyrical mode in “Snow Country”, «Monumenta Nipponica», 26, N° 3, 1971, p. 283.
54 In giapponese ma (間), ovvero “spazio vuoto”, “intervallo”.
55 Starrs sostiene che lo haiku sia “la composizione poetica più vicina al silenzio di quanto ogni possibile mezzo verbale possa essere”, in STARRS, Soundings in Time…, cit., p. 180.
56 無 vuoto in giapponese.
57 Come sostiene STARRS, Soundings in Time…, cit., p. 20.
58 Utsukushii Nihon no watakushi, KYZ, vol. 28, p. 352. Cfr. la traduzione italiana di Ornella Civardi in KAWABATA Yasunari, Il Giappone, la bellezza e io, cit., p. 51 e quella di Maria Teresa Orsi in KAWABATA Yasunari, Romanzi e racconti, cit., p. 1246.
59 Roland BARTHES, L’impero dei segni, Torino, Einaudi, 1984, p. 81.
60 STARRS, Soundings in Time…, cit., pp. 136-137. UEDA Makoto sostiene che I simbolisti francesi hanno rivalutato per primi, nel Novecento, le caratteristiche dello haiku che enfatizzavano la visione monistica del reale, attraverso l’uso delle sinestesie. Si veda UEDA Makoto, Matsuo Bashō, cit., p. 178.
61 KYZ, vol. 12, p. 447. Cfr. SEID p. 189, SUGA p. 196 e SUGA 2 pp. 626-627.
62 R. H. Blyth, citato in SUZUKI, cit., p. 228.
63 Si allude al famosissimo haiku di Bashō: “Un vecchio stagno/una rana salta/rumore dell’acqua” [Furuike ya/Kawazu tobikomu/Mizu no oto] in UEDA, Matsuo Bashō, cit., p. 53.
64 Come sostiene SUZUKI, cit., p. 241.
65 無心 “senza mente”.
66 Suiboku (水墨).
67 Tawaraya Sōtatsu, pittore giapponese (俵屋宗達, 1576-1643). Fra le sue opere, i paraventi del dio del Vento e del dio del Tuono.
68 Nell’originale tre shaku, 1 shaku (尺, piede giapponese)=0, 994 piedi, quindi 0, 3029712 centimetri.
69 KYZ, vol. 12, pp. 336-337. Cfr. SEID pp. 90-91, SUGA pp. 92-93 e SUGA 2 pp. 524-525.
70 Ibid., p. 337. Cfr. SEID p. 90, SUGA p. 93 e SUGA 2 p. 525.
71 Ibid., p. 331. Cfr. SEID p. 86, SUGA p. 87 e SUGA 2 p. 519.
72 Alla lettera, “tre o quattro sun”, dove 1 sun (寸) o pollice giapponese=3, 03 centimetri.
73 KYZ, vol. 12, pp. 333-334. Cfr. SEID p. 88, SUGA pp. 89-90 e SUGA 2 pp. 521-522.
74 Ibid., p. 414. Cfr. SEID p. 160, SUGA p. 166 e SUGA 2 p. 597.
75 Sumie (墨絵).
76 Pittore dell’epoca Edo (渡辺崋山, n. 1793, m. 1841), morto suicida all’età di 49 anni.
77 切腹 o harakiri (腹切) alla lettera “tagliare la pancia” è il suicidio rituale giapponese.
78 床の間. Si chiama così la stretta rientranza in un muro nella casa tradizionale giapponese, usata per tenere una pittura, una calligrafia o una composizione floreale.
79 KYZ, vol. 12, pp. 469-470. Cfr. SEID pp. 208-209, SUGA pp. 217-218 e SUGA 2 pp. 647-648.
80 Bi no sonzai to hakken, KYZ, vol. 28, pp. 384-385 in inglese in KAWABATA Yasunari, The Existence and Discovery of Beauty, cit., pp. 13-17.
81 Bi no sonzai to hakken, KYZ, vol. 28, p. 385. Per la traduzione inglese si veda KAWABATA Yasunari, The Existence and Discovery of Beauty, cit., p. 17.
82 In Matthew MIZENKO, Bamboo Voice Peach Blossom: Speech, Silence and Subjective Experience, «Monumenta Nipponica», 54, N° 3, 1999, p. 311.
83 TAKEDA Katsuhiko, Teoria letteraria in Giappone e in Occidente, Milano, Spirali, 1987, p. 153. Takeda prende spunto per la definizione da un saggio di Frank KERMODE, The sense of an Ending: Studies in The Theory of fiction, Oxford, Oxford University Press, 1966.
84 Per un’analogia con il tempo sacro e il tempo profano nelle religioni si veda Mircea ELIADE, Il sacro e il profano, Torino, Boringhieri, 1984, pp. 47-74.
85 TAKEDA Katsuhiko, Teoria letteraria in Giappone e in Occidente, cit., p. 154.
86 Come sostiene PALMER, cit., p. 393.
87 Edward SEIDENSTICKER, Strangely Shaped Novels: a Scattering of Examples, in Joseph ROGGENDORF (a cura di), Studies in Japanese Culture: Tradition and Experiment, Tōkyō, Sophia University Press, 1963, p. 211.
88 Mishima Yukio zenshū, vol. 31, Tōkyō, Shinchōsha, 1977, p. 210 citato in ICHIHARA Yasuko,Estetica Letteraria di Kawabata Yasunari. Ritorno al passato, in AA.VV., Atti A.I.STU.GIA., XXI, 1997, Venezia, A.I.STU.GIA., 1998, p. 254.
89 Come sostiene LIMAN, cit., p. 267.
90 Ibid., p. 269.
91 Si veda UEDA Makoto, Modern Japanese Writers, Stanford (CA), Stanford University Press, 1976, pp. 186-187.
92 STARRS, Soundings in Time…, cit., p. 182.
93 Come sostiene, tra gli altri, Liman, si veda LIMAN, cit., p. 271. Renga (連歌) ovvero “poesia a catena”.
94 短歌 alla lettera “poesia corta”, il genere di componimento poetico più conosciuto in Giappone, che trae origine in epoca classica.
95 句 ovvero “strofa”.
96 Si veda ŌOKA Makoto, The Unexpected Universality of the Modern Japanese Literary Tradition, in AA.VV., The Voice of the Writer 1984: Collected Papers of the 47th International P.E.N. Congress in Tōkyō, Tōkyō, the Japan P.E.N. Club, 1986, pp. 238.
97 Come sostiene ŌOKA, cit., p. 238.
98 Ibid., p. 239.
99 In sintonia con la moderna psicologia, che frantuma l’io in svariate entità e modalità percettive.
100 STARRS, Soundings in Time…, cit., p. 176. L’illusione dell’esistenza di un io (ātman) trae origine, per il Buddismo, dalla persistenza dei cinque cosiddetti skandha (aggregati) che danno l’idea della continuità dell’individuo. In realtà, esso non esiste (anātman) perché muore e si rigenera secondo per secondo, si veda BOTTO, cit., pp. 60-61.
101 Per la connessione tra la Shinkankakuha, Kawabata e il cinema si vedano le pp. 23-24.
102 In questo senso si può affermare che la prosa di Kawabata si basa su illusioni, come sostiene ICHIHARA, cit., p. 253.
103 Come sostiene STARRS, Soundings in Time…, cit., p. 182.
104 Keith COHEN, Cinema e narrativa: le dinamiche di scambio, Torino, ERI, 1982, p. 19.
105 Come sostiene MALATESTA, cit., p. 194.
106 Fudō è una divinità buddista (corrisponde ad una delle molteplici manifestazioni del bodhisattva Avalokiteśvara), è il dio del fuoco e contrasta tutti i demoni. Nelle iconografie è rappresentata come divinità irata, con occhi neri minacciosi e circondata da linguelle di fuoco.
107 KYZ, vol. 12, pp. 293-294. Cfr. SEID p. 52, SUGA p. 52 e SUGA 2 p. 486.
108 Come sostiene Miyoshi Masao, questi oggetti hanno esistenza di per sé e Kawabata non ci fornisce una chiave per collegarli a persone o per collegarli fra loro, per quanto spesso inviti il lettore a sforzarsi a farlo. Cfr. MIYOSHI Masao, Accomplishes of Silence – The Modern Japanese Novel, Berkeley, University of California Press, 1974, p. 119.
109 KYZ, vol. 12, p. 294. Cfr. SEID p. 52, SUGA p. 53 e SUGA 2 p. 487.
110 KENNETH, cit., p. 103.
111 Kenneth BURKE, Counter-Statement, Los Altos, Hermes Publications, 1953, p. 125, citato in STARRS, Soundings in Time…, cit., pp. 182-183.
112 KYZ, vol. 12, pp. 247-248. Cfr. SEID pp. 7-9, SUGA pp. 9-10 e SUGA 2 pp. 443-444.
113 STARRS, Soundings in Time…, cit., p. 184.
114 Ibid., p. 184. Starrs giunge a chiedersi se “le opere di Kawabata sarebbero sopportabili, qualora il loro tono generalmente basso non respingesse molti lettori a causa dell’assenza di frequenti interiezioni di immagini artistiche o della natura che ne elevano il tono”.
115 Si vedano le pp. 47-48.
116 STARRS, Soundings in Time…, p. 185.
117 Starrs propone, in analogia a quello qualitativo, di rinominare la progressione associativa “salto associativo”.
118 Citato in STARRS, cit., p. 176.
119 BURKE, cit., p. 125, citato in STARRS, cit., p. 187.
120 Si vedano le pp. 69-71.
121 Tra parentesi i riferimenti al capitolo e al numero d’ordine nello schema temporale e, se presente, separato da un’ulteriore virgola, il riferimento alle pagine nella trattazione.